Rosso
raccontato da
Michele Bonuomo
Ferdinando Bruni
Alejandro Bruni Ocaña
regia
Francesco Frongia
luci
Nando Frigerio
traduzione
Matteo Colombo
produzione
Teatro dell'Elfo
Far vedere la pittura attraverso le parole non è mai facile. Ci provano gli storici o i critici d’arte e sono rari e, di conseguenza, preziosi quelli che ci riescono: uno per tutti e maestro assoluto, Roberto Longhi, inarrivabile narratore di pittura e lui stesso pittore di parole.
Ancora più arduo è mettere in scena con la parola e con il gesto del teatro la materia profonda della pittura, quella cioè che non ammette rappresentazione di superficie. John Logan e Ferdinando Bruni ci sono riusciti in Rosso.
Il primo, con un testo densissimo che, senza mai essere accademico, illustra, indaga, svela la drammatica ossessione che inesorabilmente stava portando Mark Rothko all’autodistruzione. Il secondo, senza mimetismi di maniera, dando corpo, voce e animo a un artista che più d’ogni altro si è fatto carico delle contraddizioni laceranti del fare pittura nel secondo Novecento.
Un’epoca, cioè, in cui l’urgenza non poteva essere più quella di fare un “altro” capolavoro che confermasse le certezze della modernità, bensì quella di demolire l’opera appena fatta per aprirsi un varco verso un assoluto solitario, senza tempo e senza spazio. Per trovare la strada senza ritorno verso quel Nulla che ha dato ogni volta a Rothko un motivo per “fare sempre un buon quadro”.
Le parole scritte di Logan e quelle “parlate” di Bruni riescono a fare vedere a tutti, emozionando, la pittura sconfinata di Mark Rothko.