Erri e Gian
raccontato da Massimo Cotto
di Erri De Luca
Erri De Luca, Gianmaria Testa e Gabriele Mirabassi
Andrea Violato
Fuorivia
Il tavolo è di quelli quadrati, per evitare ogni possibile snobismo culturale – come diceva Marcello Marchesi: “Meno tavole rotonde e più tavole calde”. Le sedie sono scomode, perché non si può riposare su niente, figurarsi sugli allori.
Erri De Luca e Gianmaria Testa, con il puledro di razza Gabriele Mirabassi (non un ronzinante qualsiasi), tornano a raccontare di mondi in estinzione, speranze perdute nella pioggia. Danno voce a chi voce non ha, in questo tempo sbandato dove tutto è vuoto a perdere. Frammenti di poesie, discorsi che evocano ideali ma fuggono gli idealismi, canzoni che sono colonna sonora di un disagio. I tre cominciano timidi come a un ballo di liceali, poi sciolgono le briglie e diventano sacche di resistenza, perché, come diceva un premio Nobel, il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza. Abbiamo perso la capacità di indignarci, di coltivare la ribellione, di essere contro finché ti lasciano la voce.
Erri disegna parole, Gianmaria mette in musica il loro contraltare, Gabriele dispensa suggestioni. Alla fine è giusto chiamarli per nome, perché il tentativo, spesso riuscito, non è di pontificare o raccontare grandi verità, ma evocare ombre e luci, spettri e speranze come si fa tra amici, davanti a un camino o a qualcosa che scalda, anche se fuori è inverno brutto che ghiaccia i mulini a vento. Erri parte spesso dalla poesia, che non è un prendere alla larga, è far prendere il largo alle parole, perché i versi ogni tanto si avverano. Dobbiamo crederlo, per non andare fuori tempo e riprendere il passo giusto anche lontano dal teatro.