American Blues
raccontato da Stefano Miceli
Elena Russo Arman, Margherita Ortolani e Fabio Paroni
Avrei dovuto capirlo subito, appena entrato.
Tra tutti i possibili blues da piangere, They’re red hot è il più scanzonato, ripetitivo e sfrontato.
Perché è un ragtime. E quando è un ragtime ad accoglierti, non sai mai dove si va a finire.
Prima di sedermi sulla poltrona rossa avevo fatto i compiti, ripasso di Tennessee Williams: Lirica della miseria, retorica del sacrificio, lacerazioni familiari, lavorio annichilente della società sull’individuo e, infine, i bagliori delle umane resistenze. Mi aspettavo il buio dell’anima quindi, e i silenzi tragici della povertà.
Mi accoglie invece una stridula Esmeralda con in mano una macchina da presa, inquadra la sua corte dei miracoli incantata in una ripetizione ossessiva degli stessi movimenti.
Quando Robert Johnson termina il suo elettrico ritornello, il mondo che esplode davanti agli occhi lascia senza fiato. Sirene d’allarme, luce rossa, topi volanti, chitarre elettriche distorte e blues primordiali in loop continuo; la signora Pociotti è un uomo, la voice-off non smette un attimo di martellare, i tre sul palco cambiano e scambiano ruoli, generi e manie isteriche.
La febbre sale di continuo, ogni personaggio sprizza vita e lucida follia, l’esprezzo razzo fischia tra le pianure del Tennessee e del Missouri, destinazione New Orleans, Louisiana. I personaggi non chiedono altro che di essere amati.